...E dopo la vita? (L'uomo e il suo destino) Convegno di Pescara 13-15 ottobre 2005

Dal 13 al 15 ottobre 2005 si è svolto presso l'Oasi dello Spirito di Montesilvano (Pe) il XX° Convegno Nazionale di Filosofia dell'A.D.I.F (Associazione Italiana Docenti Italiani di Filosofia) dedicato al tema ...E dopo la vita? (L'uomo e il suo destino), organizzato dal prof. Giuseppe Natoli.

L'assise congressuale è stata aperta, dopo i saluti delle autorità civili ed ecclesiastiche, dalla relazione introduttiva del Presidente dell'associazione, prof. Aniceto Molinaro (docente presso l'Università del Laterano di Roma) centrata sul tema Vivere-morire-sopravvivere o oltrevivere.
Fin da subito è emersa la necessità di distinguere tra quello che è il semplice decesso, il cessare o il perire propri di una dimensione semplicemente naturale-biologica, e la morte, la quale è essenzialmente legata all'esistenza, e che, proprio in questo nesso, caratterizza l'essere umano come tale.
La morte non sopravviene accidentalmente all'esistenza, ma è atto dell'esistenza stessa e la domina con ininterrotta continuità.
La relazione essenziale tra esistenzialità e mortalità porta ad affermare che solo una analisi del primo termine può condurre a una precipua caratterizzazione della seconda e viceversa.
Il morire fa emergere i nostri limiti, la nostra intrinseca finitezza, ma con questo appare solo ciò che può mostrarsi al di qua del limite.
Conseguentemente con la morte e il suo silenzio emerge un silenzio sul limite come tale, sull'al di là rispetto a cui esso si mostra come al di qua, e viceversa.
La finitezza dello stesso orizzonte dell'apparire per noi e la questione dell'al di là rispetto alla morte possono venire considerati solo attraverso l'approfondimento del nesso essenziale tra esistenza e morte.
Il parlare di esistenza e della sua relazione essenziale con la morte porta a considerare il problema dell'immortalità del mortale a partire da una base e in un contesto rigorosamente e fondamentalmente ontologici: la relazione uomo-essere non è qualcosa che sopraggiunga all'uomo, ma lo qualifica come ente, ovvero caratterizza la sua natura e statura ontologica come atto dell'essere, dell'essere che è e che non può non essere.
Proprio da qui emerge che pur nella sua finitezza l'uomo è apertura all'essere, e se è tale con e nella sua finitezza, viene essenzialmente custodito nell'essere e dall'essere, e conseguentemente l'uomo è un mortale immortale.

Venerdì 14 ottobre, la giornata è stata particolarmente densa di contributi.
Nella mattinata le relazioni principali sono state quelle del prof. Battista Mondin, dell'Università Urbaniana di Roma, e del prof. Umberto Galeazzi dell'Università di Chieti.

L'intervento di Mondin, intitolato “Metafisica della morte„, ha in primo luogo evidenziato, proponendo una ampia fenomenologia della morte, che il morire riguarda ogni creatura, ogni ente che in qualche modo non si identifica con l'essere ma ad esso partecipa.
L'uomo comunque non si limita semplicemente a morire, ma ha coscienza e consapevolezza della morte, la quale costituisce certamente un enigmaa cui egli ha tentato in vario modo di dare una risposta.
Tra queste si segnalano quelle che vedono nella morte un passaggio alla vita eterna, quelle che concepiscono il morire come fine ultima, e quella della reincarnazione.
La proposta della metafisica è, a dire di Mondin, senza dubbio la più valida e si centra sulla nozione di immortalità dell'anima.
Chiaramente a questa concezione si oppone la scienza, ma si tratta di vedere fino a che punto il sapere scientifico possa dire una parola definitiva sulla costituzione ultima dell'essere e dell'uomo.
L'uomo è essenzialmente persona, ovvero capace di atti spirituali che, in quanto tali, non possono trovare la loro origine e spiegazione nel tempo e nello spazio, ma rimandano all'Infinito e all'eternità.
E' grazie all'anima che l'uomo può dire di essere fatto per l'eternità.
Tuttavia rimane il problema della resurrezione del corpo, ma la risposta a questo quesito non può essere offerta da una dimostrazione filosofica, bensì si può avere solamente attraverso la fede.

Il contributo del prof. Galeazzi è stato dedicato all'analisi del tema Morte e immortalità in Horkheimer e Adorno.
Da subito emerge la singolarità dell'interpretazione proposta rispetto alla solita ricezione del pensiero dei due autori, ma si tratta di una interpretazione basata su precisi riferimenti testuali.
Il problema della morte e dell'immortalità si affaccia nell'ultima stagione speculativa dei due intellettuali, allorchè essi abbandonano il giovanile umanismo prometeico, e consente di ripercorrere l'intero itinerario speculativo dei due Autori.
Si ha una censura della morte proprio nel momento in cui l'uomo viene inchiodato a una rigida immanenza e si sorvolano le questioni emergenti dal singolo esistente.
L'oblio della morte si ha ogni qualvolta al centro è l'universale, un organicismo che può essere sia di matrice hegeliana che marxiano-marxista: è l'universale che è prodotto dal singolo, non viceversa, così che il problema della morte viene obliato qualora viene dimenticata la singolarità e, conseguentemente, può emergere consapevolmente e nelle sue dimensioni effettive nel momento in cui si ha una considerazione autentica del singolo concretamente esistente.
L'uomo sì muore, ma non accetta né si arrende a questo fatto; basti pensare che pur l'affermazione per cui tutto cessa con la morte pretende di avere un significato che nonè transeunte.
Soprattutto per Adorno autentica liberazione può aversi solo con la speranza della resurrezione della carne in una dimensione di pienezza.
Quest'ultima considerazione non viene fatta in direzione del Cristianesimo, ma certamente porta a riflettere sulle origini ebraiche di Horchkeimer e Adorno.

Nella seduta pomeridiana il prof. Vincenzo Vitiello (Università di Salerno) ha trattato il tema “Esperienza del tempo Cristiano da Gesù a S. Paolo„.
E' emerso che la usuale affermazione, per cui con il Cristianesimo emerge un concetto lineare del tempo che si contrappone alla circolarità del tempo pagano, rimane alla superficie del problema.
Infatti le cose sono ben più complesse allorchè, come è stato mostrato con diversi riferimenti testuali, si considera che la nozione lineare e teologica della temporalità orientata verso il futuro è propria di S. Paolo.
Certamente il presente, l'ora, non viene trascurato, in quanto assume il suo significato in riferimento all'eternità quale scopo e fine del tempo.
Che questa concezione abbia attraversato l'intera storia occidentale emerge chiaramente se si presta attenzione alla proposta hegeliana.
Qui ogni “ora„ del tempo ha senso all'interno di uno sguardo globale.
Una concezione del tempo rigorosamente e assolutamente teologica in qualche modo assolutizza l'umano, la dimensione intersoggettiva e immanente, storica in un senso decisamente orizzontale.
Tuttavia con l'avvento di Cristo si ha una radicale e decisiva frattura tra un prima e un dopo Cristo, così che proprio prestando attenzione alla croce e a Cristo la storia va letta in direzione verticale e non - come accade prestando fede al dettato paolino - orizzontale.
L'ora è l'istante assumendo un valore autonomo in virtù del legame con l'eterno; il presente vale per sè e non per il futuro, così che la stessa comunità storica non definisce da sè i suoi membri: ognuno ha un valore in sè e sta accanto ad altri.
La croce vale in sé e non come passaggio a un futuro, e questo è il senso del tempo prima della lettura offerta da S. Paolo.

Il prof. Antonio Pieretti dell'Università di Perugia ha trattato il tema de “La morte, una sfida per l'uomo„.
Seppur c'è una continua tendenza, più o meno esplicita ed elaborata, ad obliare il problema della morte, occorre constatare che l'uomo non si arrende al fatto della morte, ma ad esso si ribella.
La morte degli altri, e soprattutto del prossimo, mi mostra questa inaccettabilità, poiché pare quasi che il prossimo sia infedele nei miei confronti, e gli stessi dolori e le sofferenze che sperimentiamo nella vita sono un accenno alla morte.
Se la morte è qualcosa che concerne essenzialmente l'uomo essa ci chiama alla responsabilità verso noi stessi e verso la vita: morire, infatti, non è qualcosa che assume valore quando accade, ma toccando l'esistenza dall'interno, è una possibilità che ha valore fin da quando è ancora un possibile.
Proprio per questo la vita non va apprezzata e considerata un valore solo nei suoi lati più gradevoli e positivi, ma nella sua totalità, in ogni modo e ambito in cui si manifesta, morte compresa.
Questa situazione però non deve portarci a un elogio della finitezza in sé chiusa: parlare di finitudine implica l'apertura a qualcosa d'altro, a una trascendenza, e se la finitezza non è l'unico orizzonte di senso, la stessa morte diviene una sfida vitale.

Sabato 15 il prof. Michael Fuss, dell'Università Gregoriana di Roma, ha tenuto una relazione intitolata “Il libro tibetano dei morti: messaggio e mito„.
La ricezione in Occidente di quest'opera del buddismo tibetano è stata filtrata dalla teosofia e, in tempi più recenti, dalla New-Age.
Dopo aver mostrato in modo documentato l'effettivo messaggio del testo, in base al quale occorre evitare la reincarnazione aprendosi all'ascolto di un'ulteriorità rispetto alla mia attuale individualità, è emerso che la reincarnazione così come presentata dal testo considerato non ha niente a che fare con un ottimismo teleologico ed etico.
Inoltre nel libro tibetano dei morti si ha una estrema valorizzazione della gratuità della vita.

Il prof. Giuseppe Natoli, presidente del centro di psicologia esistenziale “De Virgiliis„ di Pescara ha trattato il tema “Ragione, inconscio, aldilà„.
Se a prima vista la psicanalisi, già da Freud, ha tentato una critica decostruttiva della religione, secondo Natoli questo, alla luce degli sviluppi più recenti, non è più sostenibile sia dal punto di vista delle voci interne all'ambito psicanalitico, sia da quello delle critiche provenienti dall'ambito filosofico (ad es.Ricoeur).
Infatti la psicologia prenatale ci mostra come il feto sia sensibile agli impulsi provenienti dall'esterno, che si sedimenta nell'inconscio.
Quest'ultimo non costituisce la totalità del carattere, in quanto è suscettibile di ricevere un indirizzo attraverso l'educazione.
Con il Cristianesimo e la Rivelazione è possibile volgere gli impulsi inconsci a una dimensione definita dal relatore “al di là„, la quale ricomprende tutto ciò che esiste, ma non può venire razionalizzato e dimostrato razionalmente.

Accanto alle relazioni menzionate, il problema della morte e dell'al di là è stato trattato nelle diverse comunicazioni da angolazioni storico-filosofiche, giuridiche, teoretiche.